Gigi Proietti non faceva uno spettacolo. Gigi era lo spettacolo. Tout court. Quando si trovava in scena, su qualsiasi palco, polverizzava in un istante il resto e tutti coloro che – disgraziatamente per loro - gli si trovavano attorno. Diventavano accessori. Non certo per una sua volontà accentratrice (era generosissimo con i comprimari), ma con la forza di un talento assoluto, bruciante, definitivo. Di quel sorriso che diventava ghigno e poi si spegneva in un istante per farsi caricatura, sfottò, balbuzie, stupore, pernacchia. Di un carisma che si portava appresso con una disinvoltura che nessun’altro aveva. È come se si portasse appresso un occhio di bue (la luce tonda e potente che illumina il centro del proscenio) permanente, anche nella vita.
È entrato nella storia del teatro leggero per una marea di motivi, ma piace ricordarlo soprattutto quel «Nu me romp’ er ca’» che era la canzone/tormentone che prendeva mirabilmente in giro gli chansonnier esistenzialisti francesi. Nel 2006 pubblicai per Mondadori «Il peggio della diretta», un volumetto di racconti di sapidi dietro le quinte dello spettacolo raccontati dagli stessi protagonisti. Mi fece l’onore di regalarmi un paio di perle raccontate alla sua maniera, e per questo non finirò mai di ringraziarlo.
Famoso per la mandrakata di «Febbre da cavallo», film che uscì in sordina e che diventò col tempo oggetto di culto pagano, Proietti era molto altro. Poteva recitare qualsiasi cosa (e lo dimostrò nell’interminabile serie di spettacoli di «A me gli occhi, please»), ma non disdegnava neppure le barzellette, all’occorrenza. Con un modo sempre lieve di prendere e mettere in scena la vita, senza mai prendersi e prenderla troppo sul serio. Ebbe una scuola di teatro e alcuni pallidi imitatori di uno stile purtroppo inimitabile.