Checco Zalone in una scena di «Tolo Tolo». |
Non a caso i pasdaran leghisti gli hanno già ammollato una bella fatwa fra capo e collo. Anzi, fra capocollo. Sin qui infatti il pugliese che fa saltare i botteghini era riuscito a stare sempre in equilibrio conquistando con la sua satira l'alto e il basso, il colto e l'inclita, giocando perfettamente sull'equivoco. Che equivoco in realtà non è mai stato. Fatto sta che uno percepiva la derisione di un mondo dal quale era lontano; l'altro si sentiva protagonista di quel mondo e si autoesaltava non cogliendola. Diabolico perché così acchiappi il pubblico trasversalmente.
In «Tolo Tolo» (forse anche grazie al lavoro fatto sulla sceneggiatura con Paolo Virzì) Checco smussa molto il suo lato caricaturale e fa capire subito da che parte sta. Da quella dell'amore universale; concetto un po' utopistico, politicamente correttissimo e molto funzionale al racconto vagamente fiabesco. È un film simpatico, fondamentalmente innocuo (si può serenamente aspettare di vederlo in tv senza correre al cinema), ma che fa perdere per strada, purtroppo, parecchie risate. Il rischio (probabilmente calcolato), così facendo, è di lasciare sul campo alla lunga l'irrinunciabilità del periodico appuntamento nelle sale. Quando Zalone lavorava in coppia con Gennaro Nunziante si usciva dal cinema col mal di pancia e la mandibola slogata dal ridere. Stavolta no. Stavolta vince il sorriso. Lasciando da parte i calcoli di cassetta, sui quali è più forte il produttore Valsecchi, sul piano artistico è comunque sicuramente una forma di evoluzione.