Massimo Bertarelli. |
Da ragazzo leggevo Massimo e le sue recensioni cinematografiche scoppiettanti e al fulmicotone sul Il Giornale di Indro Montanelli almeno con la stessa voracità con cui mi cibavo di Indro. Ma la fame era maggiore, proprio per quell'amore per lo spettacolo che abbiamo sempre condiviso. E per il suo cinismo che sfociava puntualmente in battuta folgorante, definitiva. Con una penna di una classe raffinatissima che maneggiava con padronanza totale, a volte andava di badile (gli piaceva il badile), ma spesso sapeva costruire il periodo in modo tale da distruggere chiunque con otto parole, anche meno, senza che neppure se ne accorgesse. Il veleno di solito lo metteva in coda, naturalmente. Troppo sbrigativo, secondo alcuni critici con la puzza sotto il naso. Del resto detestava Fellini e Bertolucci e questo pochi glielo perdonavano. Un Maestro vero, dico io. Come Massimo non ne fanno più. E vi prego di credermi. D'altra parte se devi imparare conviene farlo dai migliori.
Non vi dico la gioia quando iniziai a collaborare proprio con #IlGiornale (diretto dal Vittorio Feltri dell'epoca con Maurizio Belpietro come solido uomo-macchina; Montanelli se n'era appena andato a La Voce) ed ebbi la fortuna di conoscerlo personalmente. Arrivavo dall'Oltrepò Pavese con la mia metaforica valigia di cartone e ogni volta che mi affacciavo nell'acquario della redazione spettacoli di Via Negri lui a voce altissima, creandomi reale imbarazzo, urlava: «Uèèè, alòra, sei arrivato? Mettiti lì, con-ta-di-no!». Quel «contadino» che ammiccava alle mie origini significava che Massimo mi aveva accettato. A modo suo, naturalmente. Non potete immaginare quanto per me fosse importante. E col tempo mi aveva preso anche in grande simpatia. Per me era un gradino sotto Dio. Anzi, pari merito. Ma col vantaggio di essere infinitamente più divertente.
Non amava fare il capo. È stato quasi sempre un vice (al massimo sopperiva alle assenze di qualche capetto): aveva meno responsabilità, poteva dedicarsi ai pezzi, ai film e ai suoi cazzeggi. Era un omone burbero che mascherava con fare ispido tanta timidezza e alcune fragilità che ho conosciuto più tardi. Non si contano le mie telefonate, da collaboratore, per proporgli pezzi e interviste a qualche personaggetto televisivo. La risposta era, invariabilmente: «Eh, e alòra? È morto?». Io: «No Massimo, non è morto». Tradotto dal giornalistese da quotidiano significava: questo fa notizia solo se muore. «Non è morto, Massimo! Mi spiace. Ma ascoltami un secondo».
«E alòra niente, dai che non ho tempo che mi comincia Paolo Limiti!». Un piacere proibito: credo non ne perdesse una puntata, sempre per via dell'aneddotica da showbiz che spesso proponeva o propinava. Poi chiudeva la telefonata dicendo: «Vabbé, quando arriva ... (il o la caposervizio) glielo dico e vediamo». In genere il pezzo passava, ma quando comandava lui avevo praticamente carta bianca. «È morto/a?» me lo domandava comunque, ma poi aggiungeva: «Va beh, fammi quattromila battute al massimo. Non sbrodolare». Quando sul Giornale varai la rubrica di indiscrezioni televisive «Bassa frequenza», che nell'ambiente ebbe anche il suo buon seguito, non ne perdeva una puntata. Anche perché spesso era costretto a passarla. Salvo poi dirmi in privato, ridendo: «Massì, ma non gliene frega un cazzo alla gente di quella roba lì». Non ho mai saputo dargli completamente torto.
Per lui fondai il «Massimo Bertarelli Fun & Fan Club», con tanto di tesserine che conservo da qualche parte. Il primo raduno fu per una cena a Barbianello (nel mio Oltrepò «Con-ta-di-no!»), alla Confraternita del cotechino caldo, dove con alcuni amici lo mettemmo a capotavola e lo sezionammo di domande. Alla fine lo costringemmo al grottesco supplizio di sorbirsi un elenco di titoli di film storici storpiati in parodie porno. Abbozzò, ma era felice: la festa era tutta per lui. Un po' vanitoso ma con timidezza. Tipo molto particolare, Massimo. Qualche anno dopo fui felice di poterlo intervistare per il televisivo «Sali & Tabacchi», su Canale 5, facendolo parlare del suo punto debole: il vizio del gioco, che aveva faticosamente perso. Assieme a molti soldi. Pur senza negarsi ogni tanto ancora qualche scommessina. Come il prefissino del Mascetti in Amici miei. Aveva voglia di liberarsi di un vecchio peso.
Ti ho voluto molto bene, «Massimino». Come ti chiamava una collega per sminuire i tuoi modi fintamente sbrigativi. L'hai sempre saputo, lo so. Però non te l'ho mai detto, e ne approfitto ora.