Aldo Vitali, direttore di «Tv Sorrisi e canzoni» e «Il Mio Papa». |
Credo di avere iniziato a stare male, di un disagio all'epoca solo strisciante e difficilmente descrivibile (poi è andata sempre peggio), una mattina di qualche anno fa, quando quella frase mi entrò sibilando nelle orecchie, pronunciata dal direttore del mio (ex) giornale, «Tv Sorrisi e canzoni». Ovvero Aldo Vitali, l'uomo che dirige anche il «Il mio Papa».
Eravamo tutti in una stanzetta al secondo piano del Palazzo Niemeyer a Segrate, che all'epoca veniva utilizzata per le riunioni di redazione. Un'occhiata al numero appena uscito e ai servizi e alle assegnazioni per quello successivo. All'improvviso il direttore, durante il suo lungo monologo, si girò verso di me, mi guardò sogghignando, e tirandomi in ballo totalmente a freddo disse, come fosse un inciso: «Bagnasco, parlandone da vivo», e poi proseguì il suo discorso.
Bang! Accusai il colpo. Forte, secco, implacabile, per giunta davanti a tutti i miei colleghi, ma per orgoglio non dovevo, anzi non potevo darlo troppo a vedere. Non sapendo come reagire, in pochi istanti, abbozzai a denti stretti un laconico: «Molto divertente». Ma intanto, dentro, vivevo un mix fra devastazione e voglia pulsante di reagire nell'impossibilità di farlo. Perché è questo il problema in situazioni simili: rispondendo a tono si rischia paradossalmente di passare dalla parte del torto. E devi tenerti tutto dentro, irrimediabilmente dentro. E alla lunga fa molto male.
Per fortuna, essendo dotato di un buon autocontrollo che mi è sempre stato di grandissimo aiuto in questi ultimi anni professionalmente e umanamente così difficili nei rapporti col signor Vitali, sono rimasto in silenzio, muto e rassegnato, ancora una volta.
Poi, dallo strapuntone sul quale ero appollaiato insieme con altri colleghi, ho poggiato la testa al muro iniziando a guardarmi in giro, intontito. Quel che provai, per darvi un'idea più precisa, è come quando nei film esplode la bomba gigante vicino al protagonista, che si salva, ma quella forte esplosione, fra polvere e calcinacci che volano, lo scaraventa a terra rendendolo sordo per un po'. Cerco gli occhi di qualcuno. Proprio davanti a me, al tavolo, c'è il vicedirettore Bice Colarossi, sempre molto allineata sulle posizioni di Vitali, ma volge lo sguardo in basso. Mi piace pensare (ma magari sbaglio) che persino lei abbia trovato infelice quell'uscita. Altre facce, altri occhi. Quasi tutti puntano a terra, di lato, altrove, fintamente distratti o imbarazzati. C'è invece lo sguardo amaro di una collega saggia che da tempo mi ripeteva costantemente: «Perché ti sbatti sempre così tanto, quando poi ti trattano così?». E quello sguardo sembrava dirmi, netto e severo: Lo vedi? Ben ti sta.
Intanto, quel «Bagnasco, parlandone da vivo» mi martellava in testa senza tregua. Credo di non avere mai subito una pubblica umiliazione simile in vita mia. Ovviamente non ho sentito il resto della riunione. Sono rimasto lì come un tonno, avvolto nei miei pensieri e nelle domande. Perché qualcosa di così gratuito e mortificante? Perché la mia dignità doveva finire calpestata sul tavolo di una riunione? Perché arrivare a tanto? Perché l'uomo che è indiscutibilmente, in quanto Direttore del tuo giornale, il totale artefice del tuo destino professionale, ti sbatte in faccia ridacchiando la tua morte professionale? Provavo amarezza, un senso di nausea e disgusto che non mi hanno mai più abbandonato da allora. Complimenti davvero. Forse a qualcuno deve dare tanta potente euforia comportarsi così. E istintivamente, per uscire dal loop mentale, anche se non c'era proprio niente da ridere, ripensavo alla famosa gag di un film di Aldo, Giovanni e Giacomo, quando Giovanni gioca a braccio di ferro con un bambino di manco cinque anni, ovviamente lo batte, e poi scoppia in un'irrefrenabile, incontenibile gioia tipica dei veri trionfi agonistici. Forse questo signore davanti a me ora si sente così, pensai. Felice di poco. Tante volte l'ho visto felice di poco. E non importa se lì davanti c'è uno con la lettera scarlatta addosso (che non si è certo dipinto da solo) al quale ha appena gradevolmente ricordato che è un morto che cammina.
«Bagnasco, parlandone da vivo». Il tutto dopo 24 anni di immacolata carriera, senza una querela e con un nome e una rispettabilità nell'ambiente e fra i lettori guadagnati sul campo, sudando, con il rispetto assoluto (sia chiaro, doveroso) dei virgolettati di chiunque e della dignità e dei principi del mio mestiere, scrivendo con passione e leggerezza per i giornali della famiglia di Silvio Berlusconi. Sei anni al «Giornale» di Paolo. Diciotto nella Mondadori di Marina. Sempre occupandomi (tranne che negli ultimi anni, come da pubblica certificazione di cui sopra) dei servizi più importanti e delicati dello spettacolo, core-business dell'impero berlusconiano. E poi spunta un signore, un signore che in redazione può fare di te ciò che vuole, che una mattina davanti a tutti i colleghi ti butta lì felice un: «Bagnasco, parlandone da vivo». La gratitudine, lo so, non è di questo mondo, eppure (lo ricordo bene per averlo visto più volte con i miei occhi) è sempre stata un piacevole, signorile valore aggiunto del lavoro alle dipendenze delle aziende della famiglia Berlusconi. Qualora le cose fossero cambiate, un povero cristo si sarebbe accontentato almeno del rispetto. Quello basico, essenziale, l'entry level; buona norma in tutte le comunità civili. Invece, «Bagnasco, parlandone da vivo».
Bice Colarossi, Aldo Vitali e Papa Francesco. |
Questo è solo un piccolo episodio - però grandissimo per me, visto che, stanti le mie condizioni di salute, non riesco davvero più a differire l'urgenza di raccontare almeno una scheggia della verità e dei fatti - ma piccolo in assoluto, rispetto alla complessità della vicenda che mi riguarda, che tocca anche punti ben più delicati inerenti l'essenza stessa dell'esercizio della professione giornalistica e alcuni principi costituzionali. Come forse avrete letto da qualche parte, se ne sta occupando l'Ordine dei Giornalisti, che ha aperto un procedimento per mobbing contro Aldo Vitali per l'attività ai miei danni. Ancora una volta, come ho sempre fatto, non entro nel merito della questione solo per non coinvolgere la mia Azienda, che in tanti anni ho sempre fatto di tutto per tutelare.
Mi piace ricordare, infine (perché in qualche modo sono strettamente legati), un altro episodio redazionale emblematico molto più recente, avvenuto poco prima che entrassi in malattia. Stavamo chiacchierando insieme con il caporedattore centrale Alex Adami, figura chiave di Sorrisi, e altre tre persone. A un certo punto Adami parla di me e mi tratteggia con questa frase: «Bagnasco è come la muffa: puoi provare a mandarla via, ma alla fine torna sempre fuori». Sgradevole, direte voi. Sgradevolissima. Cinica. Vero. Molto vero. In fondo perché uno deve sentirsi definire così?
Eppure io, quando Alex l'ha pronunciata, mi sono illuminato e, nell'amarezza complessiva, ero quasi felice; sapete perché? Perché sono sicuro che il collega, che è persona intelligente, competente, credibile, e che mi ha sempre dimostrato, anche pubblicamente, stima, correttezza e vicinanza nel tunnel di questi ultimi anni, stava descrivendo con una straordinaria metafora, meglio dell'intero ricorso del migliore degli studi legali, la mia situazione all'interno del giornale negli ultimi anni. Un giornale che non era certo lui a dirigere. Non era lui a provare a togliere quella «muffa» (chissà perché) così sgradevole a vedersi ma sino a qualche anno prima così richiesta, così pregiata, così ambita.
Aldo Vitali e Raoul Bova. |
Adami con quel colpo di genio sottintendeva (con una sintesi mirabile e inequivocabile, se sbaglio il collega mi corregga ma sarebbe grave se fosse altrimenti) la straordinaria resistenza umana e professionale di un giornalista che fa il suo dovere sempre e comunque e che non affoga ma alla fine riesce sempre a riemergere nonostante debba nuotare in una situazione ambientale avversa, da lui fotografata con grande lucidità. E così io, quella macchia di muffa che si prova ostinatamente a mandare via ma che alla fine torna sempre fuori (quasi sempre, purtroppo, visti gli eventi), l'ho fatta diventare da quel giorno la più grande medaglia da appuntarmi al petto. Senza contare che dalla muffa in fondo si ricava la penicillina, e non è poca cosa. La penicillina serve parecchio anche nell'editoria, credetemi.
Ammaccato, sempre più provato, insonne, straniato, ansioso, depresso, amareggiato oltre ogni limite, ma «Sono ancora qua», per dirla con Vasco. Un morto (professionale) vivente che barcolla con una macchia di muffa a forma di medaglia appuntata sulla maglietta bianca. Bella immagine, vero? L'unica consolazione (ci metto a fatica una punta di ironia, sennò non sarei io) è che gli zombie oggi sono assai trendy e, come il nero, vanno con tutto.
Un grazie infinito, sempre e comunque, a tutti coloro che continuano a manifestarmi concretamente la loro vicinanza, capendo, condividendo e solidarizzando. Perché questa è senza dubbio - sino a oggi - la prova più difficile della mia vita. Sono un nano (non quello di Flavio Insinna, anche se avrei preferito di gran lunga sentirmi dare del nano davanti ai miei colleghi, che non il resto) tra i giganti e la mia unica forza siete voi che leggete. Vi voglio bene.
Franco Bagnasco