Moriremo d'hashtag. Lo dico da tempi non sospetti ma prima del sottoscritto se n'è accorta (a modo suo) anche «Black Mirror», la sempre sorprendente serie cult britannica di Charlie Brooker appena sbarcata su Netflix con la terza stagione.
Per ciò che riguarda il genere, a grandi linee, siamo dalle parti della science-fiction (sci-fi per gli amici), ma BM non si può ridurre a questo: è un'endovena di geniale contemporaneità. Un instillatore di dubbi messi in circolo con ingredienti come sagacia, ironia (e spesso inquietante pragmatismo) sui rischi dei nostri tempi mediatici e ipertecnologici. Caldi fuori ma freddi dentro. Con ficcanti iperbole che raccontano un progresso e un costume futuribili. Quasi sempre pericolosi.
Le stagioni di «Black Mirror» hanno come unici punti fermi la contestualizzazione e la qualità di scrittura e regia. Ogni episodio ha durate variabili, non standardizzate. Si va in onda senza cadenze contrattuali annuali precise, ma quando gli autori hanno incamerato sufficiente materiale di livello. Poco ma buono, insomma. E ogni storia è a sé, come un film. Non esiste una vera serializzazione.
Il primo episodio della «Season 3» (andatevi a recuperare le altre due, se non ne sei già cultori) è delizioso: Lacie (Bryce Dallas Howard), casalinga un po' rintronata, vive, come tutti, immersa e spesso gratificata nella sua social network life. La sua vita è un punteggio unico, un like in perenne aggiornamento. Ma il suo ranking score stavolta sale, talvolta scende, come nelle recensioni di Booking o Tripadvisor, perché nel suo mondo le persone diventano oggetti, beni di consumo, e quelle salite o discese influenzano concretamente e terribilmente i suoi rapporti con gli altri, le amicizie, e persino gli sconti sugli acquisti che fa. Se vai sotto i 4 punti diventi un paria e tutti ti evitano. Preoccupati per il futuro?
Nel secondo, un ragazzo in viaggio studio rimasto senza soldi accetta la proposta di una società tech di testare nuovi, inquietanti videogiochi horror quadridimensionali e iperrealistici; nel terzo, una misteriosa organizzazione riesce ad hackerare le videocamere dei computer di molte persone, filmate a loro insaputa nei momenti di intimità (masturbazioni, tradimenti, visioni di foto pedopornografiche), e poi ricattate; nel quarto spicca l'amore lesbico di due ragazze degli Anni 80 (colonna sonora da non perdere) che hanno il potere di viaggiare nel tempo; nel quinto, un
altro piccolo capolavoro, in una società che punta a ricreare la purezza della razza, ad alcuni soldati vengono impiantate nel cervello speciali «maschere» che inducono a vedere i soggetti da abbattere non come normali esseri umani, ma pericolosi mostri, per rendere il loro compito più facile e senza senza di colpa; nel sesto e ultimo, che ha la lunghezza e la struttura di un film, un hacker organizza su Twitter il gioco della morte. Le persone pubbliche più votate con apposito hashtag ogni giorno alle 17 vengono uccise da sciami di api meccaniche che sfuggono al controllo della società che le aveva prodotte teoricamente a fin di bene. Buona visione, e sogni d'oro.
Per ciò che riguarda il genere, a grandi linee, siamo dalle parti della science-fiction (sci-fi per gli amici), ma BM non si può ridurre a questo: è un'endovena di geniale contemporaneità. Un instillatore di dubbi messi in circolo con ingredienti come sagacia, ironia (e spesso inquietante pragmatismo) sui rischi dei nostri tempi mediatici e ipertecnologici. Caldi fuori ma freddi dentro. Con ficcanti iperbole che raccontano un progresso e un costume futuribili. Quasi sempre pericolosi.
Black Mirror - «San Junipero» |
Bryce Dallas Howard - «Nosedive» |
Wyatt Russell - «Playtest» |
Malachi Kirby - «Men Against Fire» |