Milano. La mappa della violenza metropolitana va rivista. Non sono le periferie degradate o gli stadi, ostaggio degli hooligan, i veri luoghi dove si scatenano i più bassi istinti umani. Sono gli uffici postali.
Le sedi delle Poste oggi sono laboratori di odio e rancore senza precedenti e funzionano esattamente come le arene dei gladiatori nell'antica Roma. Un meraviglioso tutti contro tutti dove vedi il sangue zampillare dal collo, le urla di gente imbufalita, la protervia e l'impotenza. Lo scontro diretto e senza sconti fra chi sta in fila col numerino e il tizio o la tizia dietro lo sportello. Prima bofonchiano, poi si sfottono reciprocamente, infine si azzannano. Aiutati, i secondi, dal ruolo ufficiale, che conferisce loro maggiore autorevolezza, e dal vetro blindato che dà loro una certa tranquillità in caso di volontà (peraltro frequente) di pestaggio. Perché il cittadino è incazzato come una bestia, non lo tieni più, è esasperato, vessato, e quindi attacca, o reagisce.
Il mio ufficio postale è così. Un luogo d'incanto dove un gesto d'amore non si nega a nessuno. Ieri l'impiegato mi ha registrato come normale una raccomandata che doveva essere con ricevuta di ritorno, come da me indicato sul modulo. Si accorge dell'errore, e immediatamente vuole farlo pagare a me. «Va bene, non importa» dice «ormai la mandiamo via così!». «No, come la mandiamo via così?» faccio io «devo per forza mandare una raccomandata con ricevuta di ritorno, quindi per favore aggiunga la ricevuta di ritorno». «Ormai l'ho fatta, devo rifarla, quindi lei la paga doppia, mi spiace, glielo dico subito» con tono aggressivo. «Se l'ha fatta sbagliata è un problema suo, è il suo lavoro». «Sì, ma lei mi ha segnato sul modulo che voleva la ricevuta di ritorno, ma non mi ha poi consegnato l'altra cartolina con il suo indirizzo». «Doveva chiedermela, ci mettevo un secondo a compilarla. Non sono qui tutti i giorni a fare raccomandate con ricevuta di ritorno. Ripeto: è il suo lavoro. Al massimo, per essere molto generoso, le concedo un concorso di colpa». Va a parlare con la capa, torna visibilmente nervoso, rifà la raccomandata con ricevuta di ritorno, e me ne fa pagare la metà, accettando il concorso di colpa che gli avevo proposto. Insistendo, avrei dovuto farla pagare tutta a lui, ma sono un signore. Tutto il dialogo comunque si svolge in punta di fioretto.
Mentre ero in attesa e durante questo scambio di vedute con il mio impiegato preferito, attorno a me si consumava la carneficina modello «Que-sta è Spar-ta!». «No, ques-to è il quar-tie-re Ti-ci-ne-se!».
Motivo? L'approccio al tabellone elettronico con le prenotazioni agganciato alla macchina che emette il biglietto per acquisire il proprio turno, con codice alfanumerico. Un aggeggio tra i più incasinati in natura, sia per l'equivocabilità del tasto da pigiare per la scelta del servizio (che manda in tilt anche gente col master ad Harvard, non solo i pensionati con la minima), sia perché non emette suoni al cambio del numero. Quindi fra rinunciatari e grandi flussi di gente, dovresti stare sempre come un falco con gli occhi puntati su quel maledetto tabellone, in attesa che compaia, totalmente a sorpresa, il tuo codice in un lungo elenco di 6 in costante aggiornamento.
Qui il sadismo degli impiegati (ce ne sono cinque agli sportelli, e solo uno di loro ha parvenze umane), raggiunge vette altissime. I più gentili aspettano un secondo e poi chiamano a voce lettera e numero, scuotendo poi la testa con l'aria di chi ti sta facendo il favore della vita e te lo fa pesare. I più incattiviti fanno scattare dopo tre secondi il numero successivo senza dire assolutamente nulla. Arriva lesto come una lepre il nuovo da servire, ma non di rado il poveraccio che ha perso il turno per pochi secondi si presenta qualche istante dopo e viene rimesso in riga con un breve cazziatone che deve essere d'esempio non solo nello stanzone, ma forse per l'intera umanità. Qualcuno cerca di trovare una scusa per recuperare la priorità acquisita e persa, ma lì l'impiegato, che non aspettava altro di poter litigare, ingaggia battibecchi stupendi, colpi di stizza e si appella all'infallibilità del tabellone. Allo sportello accanto, intanto, un'altra impiegata fa la mezza ramanzina a un altro perché ha preso il biglietto serie V, invece per quel servizio era la F la lettera da premere. Lo serve lo stesso, ha gli strumenti tecnici per farlo, ma il pensionato va comunque rimesso in riga. E mentre uno, sfinito, grida vendetta da un capo all'altro della sala, un altro, che ha perso due turni di numeri, gira da uno sportello all'altro implorando pietà. Che gli viene ovviamente negata: «Ha perso il suo turno, mi spiace. Non può stare qui, vada dietro la linea bianca per terra, non vede che sto servendo un altro cliente? Poi vedremo, dai...».
Ti lovvo, ufficio postale. Ma intanto ho ordinato qualche piccione viaggiatore. Danno molti meno problemi.
Le sedi delle Poste oggi sono laboratori di odio e rancore senza precedenti e funzionano esattamente come le arene dei gladiatori nell'antica Roma. Un meraviglioso tutti contro tutti dove vedi il sangue zampillare dal collo, le urla di gente imbufalita, la protervia e l'impotenza. Lo scontro diretto e senza sconti fra chi sta in fila col numerino e il tizio o la tizia dietro lo sportello. Prima bofonchiano, poi si sfottono reciprocamente, infine si azzannano. Aiutati, i secondi, dal ruolo ufficiale, che conferisce loro maggiore autorevolezza, e dal vetro blindato che dà loro una certa tranquillità in caso di volontà (peraltro frequente) di pestaggio. Perché il cittadino è incazzato come una bestia, non lo tieni più, è esasperato, vessato, e quindi attacca, o reagisce.
Il mio ufficio postale è così. Un luogo d'incanto dove un gesto d'amore non si nega a nessuno. Ieri l'impiegato mi ha registrato come normale una raccomandata che doveva essere con ricevuta di ritorno, come da me indicato sul modulo. Si accorge dell'errore, e immediatamente vuole farlo pagare a me. «Va bene, non importa» dice «ormai la mandiamo via così!». «No, come la mandiamo via così?» faccio io «devo per forza mandare una raccomandata con ricevuta di ritorno, quindi per favore aggiunga la ricevuta di ritorno». «Ormai l'ho fatta, devo rifarla, quindi lei la paga doppia, mi spiace, glielo dico subito» con tono aggressivo. «Se l'ha fatta sbagliata è un problema suo, è il suo lavoro». «Sì, ma lei mi ha segnato sul modulo che voleva la ricevuta di ritorno, ma non mi ha poi consegnato l'altra cartolina con il suo indirizzo». «Doveva chiedermela, ci mettevo un secondo a compilarla. Non sono qui tutti i giorni a fare raccomandate con ricevuta di ritorno. Ripeto: è il suo lavoro. Al massimo, per essere molto generoso, le concedo un concorso di colpa». Va a parlare con la capa, torna visibilmente nervoso, rifà la raccomandata con ricevuta di ritorno, e me ne fa pagare la metà, accettando il concorso di colpa che gli avevo proposto. Insistendo, avrei dovuto farla pagare tutta a lui, ma sono un signore. Tutto il dialogo comunque si svolge in punta di fioretto.
Mentre ero in attesa e durante questo scambio di vedute con il mio impiegato preferito, attorno a me si consumava la carneficina modello «Que-sta è Spar-ta!». «No, ques-to è il quar-tie-re Ti-ci-ne-se!».
Motivo? L'approccio al tabellone elettronico con le prenotazioni agganciato alla macchina che emette il biglietto per acquisire il proprio turno, con codice alfanumerico. Un aggeggio tra i più incasinati in natura, sia per l'equivocabilità del tasto da pigiare per la scelta del servizio (che manda in tilt anche gente col master ad Harvard, non solo i pensionati con la minima), sia perché non emette suoni al cambio del numero. Quindi fra rinunciatari e grandi flussi di gente, dovresti stare sempre come un falco con gli occhi puntati su quel maledetto tabellone, in attesa che compaia, totalmente a sorpresa, il tuo codice in un lungo elenco di 6 in costante aggiornamento.
Qui il sadismo degli impiegati (ce ne sono cinque agli sportelli, e solo uno di loro ha parvenze umane), raggiunge vette altissime. I più gentili aspettano un secondo e poi chiamano a voce lettera e numero, scuotendo poi la testa con l'aria di chi ti sta facendo il favore della vita e te lo fa pesare. I più incattiviti fanno scattare dopo tre secondi il numero successivo senza dire assolutamente nulla. Arriva lesto come una lepre il nuovo da servire, ma non di rado il poveraccio che ha perso il turno per pochi secondi si presenta qualche istante dopo e viene rimesso in riga con un breve cazziatone che deve essere d'esempio non solo nello stanzone, ma forse per l'intera umanità. Qualcuno cerca di trovare una scusa per recuperare la priorità acquisita e persa, ma lì l'impiegato, che non aspettava altro di poter litigare, ingaggia battibecchi stupendi, colpi di stizza e si appella all'infallibilità del tabellone. Allo sportello accanto, intanto, un'altra impiegata fa la mezza ramanzina a un altro perché ha preso il biglietto serie V, invece per quel servizio era la F la lettera da premere. Lo serve lo stesso, ha gli strumenti tecnici per farlo, ma il pensionato va comunque rimesso in riga. E mentre uno, sfinito, grida vendetta da un capo all'altro della sala, un altro, che ha perso due turni di numeri, gira da uno sportello all'altro implorando pietà. Che gli viene ovviamente negata: «Ha perso il suo turno, mi spiace. Non può stare qui, vada dietro la linea bianca per terra, non vede che sto servendo un altro cliente? Poi vedremo, dai...».
Ti lovvo, ufficio postale. Ma intanto ho ordinato qualche piccione viaggiatore. Danno molti meno problemi.