Che fossero bravi (ancorché non notissimi presso il grosso pubblico, e chi non li conosce non sa che cosa si perde), era cosa nota. Stavolta, a tratti, rasentano la genialità. Gli Oblivion, quintetto canoro-parodistico bolognese in attività dal 2003, sono in scena sino al primo maggio al Teatro Leonardo di Milano con «The Human Jukebox».
I bigliettini con le richieste cantautorali del pubblico in sala sono il fragile pretesto per scodellare curate e preparatissime invenzioni canzonettare, divertissment allo stato puro (anche linguistici, come un gioco sulle frasi monovocaliche), massacri di interpreti e brani noti con uno stile superbo e testi di livello.
Non più solo i collage di brani (tutti i vincitori di Sanremo in cinque minuti, per esempio) e le clip virtuosistiche che col tempo hanno spopolato su Youtube con il glorioso imprinting del Quartetto Cetra di Biblioteca di Studio Uno. Stavolta il gioco diventa più sottile e perfido, affrontando lo spettacolo quasi con lo stile didascalico delle vignette di Stefano Disegni. E così si scopre, sulle loro stesse note, che Giusy Ferreri è tornata a lavorare all'Esselunga; che Noemi canta così perché ha «i polipi in gola»; che Il Volo dei tre tenorini esporta «lo stereotipo del terrone»; che Marco Mengoni, che entra in scena in camicia di forza, canta canzoni che non ama solo per compiacere i ragazzini; che Jovanotti quando canta inonda di pericolosi sputacchi la platea. Pura satira anche su Al Bano, Romina, Pupo, Cutugno, Tozzi, i Ricchi e Poveri, e tutti i cantanti italiani che si sono reinventati una carriera in Russia e il nuovo mondo dei rapper: Fedez, J-Ax, Fabri fibra, Clementino, e via elencando. Le riletture degli Oblivion sono implacabili ma in definitiva affettuose. Soprattutto nei confronti della musica, declinata in tutte le sue possibile sfaccettature. Sino a un magico mash-up tra i Queen e Gianni Morandi.
Si ride, a volte tantissimo, in questi tempi grami così avari di risate, con la magica sensazione di non aver buttato via una serata. Hai detto niente?
I bigliettini con le richieste cantautorali del pubblico in sala sono il fragile pretesto per scodellare curate e preparatissime invenzioni canzonettare, divertissment allo stato puro (anche linguistici, come un gioco sulle frasi monovocaliche), massacri di interpreti e brani noti con uno stile superbo e testi di livello.
Non più solo i collage di brani (tutti i vincitori di Sanremo in cinque minuti, per esempio) e le clip virtuosistiche che col tempo hanno spopolato su Youtube con il glorioso imprinting del Quartetto Cetra di Biblioteca di Studio Uno. Stavolta il gioco diventa più sottile e perfido, affrontando lo spettacolo quasi con lo stile didascalico delle vignette di Stefano Disegni. E così si scopre, sulle loro stesse note, che Giusy Ferreri è tornata a lavorare all'Esselunga; che Noemi canta così perché ha «i polipi in gola»; che Il Volo dei tre tenorini esporta «lo stereotipo del terrone»; che Marco Mengoni, che entra in scena in camicia di forza, canta canzoni che non ama solo per compiacere i ragazzini; che Jovanotti quando canta inonda di pericolosi sputacchi la platea. Pura satira anche su Al Bano, Romina, Pupo, Cutugno, Tozzi, i Ricchi e Poveri, e tutti i cantanti italiani che si sono reinventati una carriera in Russia e il nuovo mondo dei rapper: Fedez, J-Ax, Fabri fibra, Clementino, e via elencando. Le riletture degli Oblivion sono implacabili ma in definitiva affettuose. Soprattutto nei confronti della musica, declinata in tutte le sue possibile sfaccettature. Sino a un magico mash-up tra i Queen e Gianni Morandi.
Si ride, a volte tantissimo, in questi tempi grami così avari di risate, con la magica sensazione di non aver buttato via una serata. Hai detto niente?