Abbiamo scelto un'agenzia di pompe funebri di Broni perché ci lavorava un suo ex dipendente, col quale da tempo coltivava un simpatico rapportino. Ogni volta che lo incontrava, gli ripeteva: «Tieniti pronto, perché quando muoio vengo da te».
Al Gigetto (come lo chiamavamo noi a casa e gli amici) sarebbe piaciuto, il suo funerale. Semplice, partecipato, un gran rosario serale e una cerimonia con messa senza finte prediche. Tanta gente che gli e ci voleva bene (a proposito: grazie davvero a tutti per le parole e la vicinanza). Non era per le ipocrisie gratuite, insomma, e in questo ci assomigliavamo. Pane al pane. E se c'era anche il salame, meglio.
Poi ogni tanto si scazzava, ma è normale, fra ossi duri. Negli ultimi anni con me aveva desistito: un po' per la malattia, un po' perché aveva (finalmente) capito che quando ho un'idea in testa è molto difficile smuovermi.
Sognava di fare il pianista, o il giornalista (poi l'ho fatto io, e di questo era particolarmente orgoglioso: conservava in solaio tutti i miei pezzi: prima per La Provincia Pavese, poi per Il Giornale, infine per Sorrisi e canzoni; lo ripeteva anche a tutte le infermiere quando andavo a trovarlo, e ciò era per me fonte di grande imbarazzo) ma fu praticamente costretto da mio nonno a ereditare il lavoro di famiglia: il cantiniere. Nonostante non amasse il suo mestiere, almeno inizialmente, frequentò la scuola di enologia ad Alba, e una volta rientrato e prese in mano le redini dell'azienda, riuscì, negli anni d'oro, a fare uno tra i migliori spumanti dell'Oltrepò Pavese: l'Olimpo. Ogni tanto si rammaricava di non averne mai registrato il marchio.
Ironico, giocherellone, fondamentalmente buono e con qualche sporadica deriva autoritaria, come tutti i Bagnasco, era l'anima delle feste a casa del mitico Dottor Fugazza. Lui e mister Giorgi, altro entertainer naturale, ne facevano una pelle. Insieme con quel furetto di mia zia Piera, la vera esibizionista della compagnia, il saggio Delio e la moglie Giovanna, alla quale la natura aveva regalato il ruolo di icona sexy. Ogni volta il Gigetto preparava finti oroscopi personalizzati per tutto il gruppo, e c'era da ridere assai, raccontano le leggende locali. Con qualche bicchiere si allentavano anche i freni di mia madre, timidissima, che in genere tentava di arginarlo, e quelli del severo zio Pino, bancario di ghiaccio ma in definitiva col cuore d'oro. A volte si travestivano da ballerini di tango argentino, con la rosa in bocca. Ricordo che ho da una foto sbiadita che ogni tanto il Gigetto mostrava con orgoglio.
In compagnia c'era anche tale Paolo «Pablo» Faravelli, il droghiere del paese, che parlava in modo (uso un eufemismo) scarsamente comprensibile. Erano molto amici, e il Gigi, che amava scherzare, ogni tanto gli spediva a casa qualcuno che gli chiedeva: «Conosci chi potrebbe dare a mio figlio lezioni di latino?». Lui lo mandava senza indugio da Pablo, assicurandogli che si trattava del migliore su piazza. Una volta incontratolo, la tragica verità. E anche il problema di non scoppiare a ridere.
Una volta, pochi anni fa, gli feci anch'io uno scherzo un po' bastardo: lo chiamai, una sera, camuffando la voce, fingendomi un operatore dell'Istat che stava realizzando una ricerca a campione. Per disponibilità e cortesia, fin troppa, ci cascò con tutti i piedi. Lo tenni al telefono una ventina di minuti, durante i quali mi feci raccontare tutti gli affari più personali di famiglia. Dalle abitudini alimentari ad altro, comprese domande sul figlio Franco, alle quali rispose con la consueta, estrema sincerità. Con uno stratagemma, ero riuscito a farmi dire da mio padre che cosa pensava di me. Il non detto. Poi mi rivelai e gli feci un bonario cazziatone: «Gigi, cavolo, ma ti chiama il primo pirla al telefono e gli racconti tutto sulla famiglia? Ti rendi conto?». Abbozzò.
Sul fronte malattie, poveretto, non s'è fatto mancare niente: epatite, depressione, Parkinson. Alcuni anni fa prendeva cocktail di farmaci per contrastare gli effetti collaterali di altri. Un circolo vizioso duro da sopportare. Anche se fra medici si è sempre sentito a proprio agio. Appena poteva andava a farsi vedere da qualcuno, confortato dal parere del luminare. In attesa del prossimo luminare.
Negli ultimi 14 mesi, un calvario ospedaliero, da struttura a struttura, con forti sedazioni che peggioravano di volta in volta la sua lucidità, minata dal Parkinson. A volte era presente, a volte entrava in un mondo parallelo fatto di cose mai fatte e mai viste, e le raccontava. Un giorno, pochi mesi fa, in casa di riposo, per tentare di riportarlo in «questo» mondo, per provare a strapparlo ai sempre più frequenti vaneggiamenti, e improvvisare un recupero (accorgendomi che aveva perso la memoria breve, ma conservava molti ricordi lontani), m'inventai un gioco. Iniziai a dirgli i titoli di tanti brani degli Anni 60, la sua Golden Age, e lui doveva ricordarsi chi li cantava. Ne azzeccò molti, quasi tutti, e alla fine piazzai «Arrivederci» di Umberto Bindi, una tra le sue canzoni preferite, scritta per metà dal suo vecchio amico Giorgio Calabrese. «Arrivederci la devi sapere per forza, dai, proviamo a cantarla...».
«Arrivederci, dammi la mano e sorridi, senza piangere. Arrivederci... Forse sarà un addio, ma non pensiamoci. Con una stretta di mano, da buoni amici sinceri, ci sorridiamo per dir... Arrivederci».
Un mezzo miracolo: avevo cantato «Arrivederci» (un arrivederci carico di simboli) con mio padre steso su un letto d'ospedale, e stavo piangendo come poche altre volte in vita mia.
Al Gigetto (come lo chiamavamo noi a casa e gli amici) sarebbe piaciuto, il suo funerale. Semplice, partecipato, un gran rosario serale e una cerimonia con messa senza finte prediche. Tanta gente che gli e ci voleva bene (a proposito: grazie davvero a tutti per le parole e la vicinanza). Non era per le ipocrisie gratuite, insomma, e in questo ci assomigliavamo. Pane al pane. E se c'era anche il salame, meglio.
Poi ogni tanto si scazzava, ma è normale, fra ossi duri. Negli ultimi anni con me aveva desistito: un po' per la malattia, un po' perché aveva (finalmente) capito che quando ho un'idea in testa è molto difficile smuovermi.
Sognava di fare il pianista, o il giornalista (poi l'ho fatto io, e di questo era particolarmente orgoglioso: conservava in solaio tutti i miei pezzi: prima per La Provincia Pavese, poi per Il Giornale, infine per Sorrisi e canzoni; lo ripeteva anche a tutte le infermiere quando andavo a trovarlo, e ciò era per me fonte di grande imbarazzo) ma fu praticamente costretto da mio nonno a ereditare il lavoro di famiglia: il cantiniere. Nonostante non amasse il suo mestiere, almeno inizialmente, frequentò la scuola di enologia ad Alba, e una volta rientrato e prese in mano le redini dell'azienda, riuscì, negli anni d'oro, a fare uno tra i migliori spumanti dell'Oltrepò Pavese: l'Olimpo. Ogni tanto si rammaricava di non averne mai registrato il marchio.
Ironico, giocherellone, fondamentalmente buono e con qualche sporadica deriva autoritaria, come tutti i Bagnasco, era l'anima delle feste a casa del mitico Dottor Fugazza. Lui e mister Giorgi, altro entertainer naturale, ne facevano una pelle. Insieme con quel furetto di mia zia Piera, la vera esibizionista della compagnia, il saggio Delio e la moglie Giovanna, alla quale la natura aveva regalato il ruolo di icona sexy. Ogni volta il Gigetto preparava finti oroscopi personalizzati per tutto il gruppo, e c'era da ridere assai, raccontano le leggende locali. Con qualche bicchiere si allentavano anche i freni di mia madre, timidissima, che in genere tentava di arginarlo, e quelli del severo zio Pino, bancario di ghiaccio ma in definitiva col cuore d'oro. A volte si travestivano da ballerini di tango argentino, con la rosa in bocca. Ricordo che ho da una foto sbiadita che ogni tanto il Gigetto mostrava con orgoglio.
In compagnia c'era anche tale Paolo «Pablo» Faravelli, il droghiere del paese, che parlava in modo (uso un eufemismo) scarsamente comprensibile. Erano molto amici, e il Gigi, che amava scherzare, ogni tanto gli spediva a casa qualcuno che gli chiedeva: «Conosci chi potrebbe dare a mio figlio lezioni di latino?». Lui lo mandava senza indugio da Pablo, assicurandogli che si trattava del migliore su piazza. Una volta incontratolo, la tragica verità. E anche il problema di non scoppiare a ridere.
Una volta, pochi anni fa, gli feci anch'io uno scherzo un po' bastardo: lo chiamai, una sera, camuffando la voce, fingendomi un operatore dell'Istat che stava realizzando una ricerca a campione. Per disponibilità e cortesia, fin troppa, ci cascò con tutti i piedi. Lo tenni al telefono una ventina di minuti, durante i quali mi feci raccontare tutti gli affari più personali di famiglia. Dalle abitudini alimentari ad altro, comprese domande sul figlio Franco, alle quali rispose con la consueta, estrema sincerità. Con uno stratagemma, ero riuscito a farmi dire da mio padre che cosa pensava di me. Il non detto. Poi mi rivelai e gli feci un bonario cazziatone: «Gigi, cavolo, ma ti chiama il primo pirla al telefono e gli racconti tutto sulla famiglia? Ti rendi conto?». Abbozzò.
Sul fronte malattie, poveretto, non s'è fatto mancare niente: epatite, depressione, Parkinson. Alcuni anni fa prendeva cocktail di farmaci per contrastare gli effetti collaterali di altri. Un circolo vizioso duro da sopportare. Anche se fra medici si è sempre sentito a proprio agio. Appena poteva andava a farsi vedere da qualcuno, confortato dal parere del luminare. In attesa del prossimo luminare.
Negli ultimi 14 mesi, un calvario ospedaliero, da struttura a struttura, con forti sedazioni che peggioravano di volta in volta la sua lucidità, minata dal Parkinson. A volte era presente, a volte entrava in un mondo parallelo fatto di cose mai fatte e mai viste, e le raccontava. Un giorno, pochi mesi fa, in casa di riposo, per tentare di riportarlo in «questo» mondo, per provare a strapparlo ai sempre più frequenti vaneggiamenti, e improvvisare un recupero (accorgendomi che aveva perso la memoria breve, ma conservava molti ricordi lontani), m'inventai un gioco. Iniziai a dirgli i titoli di tanti brani degli Anni 60, la sua Golden Age, e lui doveva ricordarsi chi li cantava. Ne azzeccò molti, quasi tutti, e alla fine piazzai «Arrivederci» di Umberto Bindi, una tra le sue canzoni preferite, scritta per metà dal suo vecchio amico Giorgio Calabrese. «Arrivederci la devi sapere per forza, dai, proviamo a cantarla...».
«Arrivederci, dammi la mano e sorridi, senza piangere. Arrivederci... Forse sarà un addio, ma non pensiamoci. Con una stretta di mano, da buoni amici sinceri, ci sorridiamo per dir... Arrivederci».
Un mezzo miracolo: avevo cantato «Arrivederci» (un arrivederci carico di simboli) con mio padre steso su un letto d'ospedale, e stavo piangendo come poche altre volte in vita mia.