Dio benedica i saldi milanesi. Quelli in grado di generare la bolgia assassina che dal 3 gennaio, per una settimana, come alla partenza di una cento metri piani, scarica contemporaneamente in strada qualche milione di persone che si accalcano frenetiche tutte insieme in cinque-sei vie con le vetrine fitte di negozi di moda non ancora trasformatisi in kebabberie. Ma è questione di settimane. Li benedico, i saldi, non tanto per la bolgia infernale, della quale farei volentieri a meno, ma per avermi liberato stavolta di un paio di pantaloni agghiaccianti. Quelli della serie: ho visto stoffe che voi umani...
Da una settimana circa, notata nell'armadio una preoccupante penuria di pantaloni invernali, ne stavo utilizzando infatti - alla disperata - un paio di velluto blu a coste con screziature grigie. Mortali. Una contraddizione in termini. Un lucido ma inquietante compromesso fra sobrietà e velleità giovanilistiche. Quando li comprai, qualche anno fa, ero sicuramente sotto l'effetto di sostanze psicotrope. Ora me ne vergogno come ci si vergogna di rubare in chiesa o di abbandonare i cani in autostrada, quelle cose lì. In realtà non ho mai fatto né una cosa né l'altra (sulla sottrazione al clero un pensiero potrei farlo...), ma spero renda l'idea.
Non so se si trattasse di acquisto compulsivo, ma non credo. Semplicemente, li avevo trovati lì per lì accettabili, un po' estrosi ma tutto sommato eleganti. Portabili. Un lì per lì che sarà durato si e no dieci giorni, perché una volta riportati a casa li fissavo già di sguincio con gli occhi della vergogna. Credo di averli messi tre volte in tutto, se si eccettua l'ultima, intensissima settimana milanese. Perché avevo finito tutti gli altri, e forse - chissà - anche per il vezzo masochistico di provare l'ebbrezza di sentirmi vestito in modo disgustoso, come il cugino bancario di Malgioglio. Come «Lo Hobbit» che va al catasto. Per giunta erano abbinati a un paio di scarpe che levati, più vicine alla ciabatta da camera (simil-correttiva) che alla calzatura. Con sprezzo del pericolo, ci ho fatto anche l'ultimo dell'anno. E non so se ringraziare o dubitare dei miei amici, perché non mi hanno detto nulla. Un dignitoso e composto silenzio.
Per me, che non sono fissato con le griffe (porto anche un capo da cinque euro, purché mi piaccia) ma ritengo di avere un discreto gusto, quei pantaloni, cribbio, quei pantaloni... Sono un'onta. Sono come le camicie estroso/impossibili o quegli oggetti strani che compri in vacanza, sotto l'effetto euforizzante di sole, mare, iodio e scampoli di libertà provvisoria. Quelli che poi, al ritorno, puntualmente ti fanno «iodiare» te stesso per averli comprati; tanto che li lascerai per sempre a marcire in un cassetto o in un armadio. Domandandoti, a ogni fugace o accidentale riapertura: «Ma come cazzo ho fatto?». Come quelle tipe che anni addietro inspiegabilmente ti sono piaciute, magari anche tanto, ma ripensandoci dopo qualche lustro, a mente lucida, ti fanno scattare lampeggiante in fronte, a caratteri cubitali, la scritta: «Ma come cazzo ho fatto?». E se ci fai caso, in sottofondo si sente anche l'eco. E la sigla del «Rischiatutto».
Se li volete, ve li regalo. Non ho neanche il coraggio di metterli nel sacco della Caritas, perché poi se risalgono a me, mi denunciano.
Da una settimana circa, notata nell'armadio una preoccupante penuria di pantaloni invernali, ne stavo utilizzando infatti - alla disperata - un paio di velluto blu a coste con screziature grigie. Mortali. Una contraddizione in termini. Un lucido ma inquietante compromesso fra sobrietà e velleità giovanilistiche. Quando li comprai, qualche anno fa, ero sicuramente sotto l'effetto di sostanze psicotrope. Ora me ne vergogno come ci si vergogna di rubare in chiesa o di abbandonare i cani in autostrada, quelle cose lì. In realtà non ho mai fatto né una cosa né l'altra (sulla sottrazione al clero un pensiero potrei farlo...), ma spero renda l'idea.
Non so se si trattasse di acquisto compulsivo, ma non credo. Semplicemente, li avevo trovati lì per lì accettabili, un po' estrosi ma tutto sommato eleganti. Portabili. Un lì per lì che sarà durato si e no dieci giorni, perché una volta riportati a casa li fissavo già di sguincio con gli occhi della vergogna. Credo di averli messi tre volte in tutto, se si eccettua l'ultima, intensissima settimana milanese. Perché avevo finito tutti gli altri, e forse - chissà - anche per il vezzo masochistico di provare l'ebbrezza di sentirmi vestito in modo disgustoso, come il cugino bancario di Malgioglio. Come «Lo Hobbit» che va al catasto. Per giunta erano abbinati a un paio di scarpe che levati, più vicine alla ciabatta da camera (simil-correttiva) che alla calzatura. Con sprezzo del pericolo, ci ho fatto anche l'ultimo dell'anno. E non so se ringraziare o dubitare dei miei amici, perché non mi hanno detto nulla. Un dignitoso e composto silenzio.
Per me, che non sono fissato con le griffe (porto anche un capo da cinque euro, purché mi piaccia) ma ritengo di avere un discreto gusto, quei pantaloni, cribbio, quei pantaloni... Sono un'onta. Sono come le camicie estroso/impossibili o quegli oggetti strani che compri in vacanza, sotto l'effetto euforizzante di sole, mare, iodio e scampoli di libertà provvisoria. Quelli che poi, al ritorno, puntualmente ti fanno «iodiare» te stesso per averli comprati; tanto che li lascerai per sempre a marcire in un cassetto o in un armadio. Domandandoti, a ogni fugace o accidentale riapertura: «Ma come cazzo ho fatto?». Come quelle tipe che anni addietro inspiegabilmente ti sono piaciute, magari anche tanto, ma ripensandoci dopo qualche lustro, a mente lucida, ti fanno scattare lampeggiante in fronte, a caratteri cubitali, la scritta: «Ma come cazzo ho fatto?». E se ci fai caso, in sottofondo si sente anche l'eco. E la sigla del «Rischiatutto».
Se li volete, ve li regalo. Non ho neanche il coraggio di metterli nel sacco della Caritas, perché poi se risalgono a me, mi denunciano.