Lo spettacolo lo bazzico da
qualche lustro. E tra le poche cose che salverei di questa bolgia, c’è il
taumaturgico sax di «Cornutone» degli Squallor. Una medicina salvavita. Quando
sono un po’ giù, mi chiudo in auto e - durante il primo viaggio che mi capita a
tiro -, canto a squarciagola questo struggente gioiello della musica e altri
3-4 pezzi del gruppo che ha fatto dell’innocua volgarità un’arte. Anzi, un
balsamo per lo spirito. Con il napoletano me la cavo egregiamente, e provate a
smentirmi.
Proprio «Gli Squallor» è il
titolo del dvd celebrativo appena uscito dopo lunga gestazione (CNI, 10 euro) a
firma Carla Rinaldi e Michele Rossi. 150 minuti di affettuoso omaggio a Totò
Savio, Giancarlo Bigazzi, Daniele Pace e Alfredo Cerruti; una manna per chi ha voglia
di immergersi nella storia dei fantastici quattro della goliardia su
pentagramma. Gli anticipatori di Elio e le storie Tese. 14 album celestialmente
grezzi e scanzonati dati alle stampe fra il 1971 e il 1994.
Un giorno intervistai
Giancarlo Bigazzi, che a proposito degli Squallor, col suo inconfondibile,
graffiante vocione toscano, mi disse: «Che cosa vuoi, si stava tutto il giorno
in sala d’incisione con ‘sti ‘azzo di ‘antanti, e la sera veniva voglia di
mettersi a prenderli in giro, sdrammatizzando tutto…». È lo stesso Bigazzi
(scomparso nel 2012), insieme con Cerruti, l’unico rimasto in vita e impegnato
in un poker della memoria, a tenere il filo del racconto de «Gli Squallor».
Insieme con Jacqueline Savio (la moglie di Toto), Gianni Daldello, il figlio di
Pace e un mare di ospiti. Anche insospettabili.
Per scoprire la personalità
del quartetto (Toto, «un principe», maestro di cortesia e buonumore e
interprete eccelso; lo schivo Bigazzi, macchina da guerra della canzone leggera
italiana, l’uomo che ha lanciato, fra gli altri, Tozzi, Masini e il Raf di
«Self Control»; il sornione Pace, eccentrico e lunare, con la sua erre al
sangue e quella sagoma di Cerruti, già direttore artistico della Sugar,
incapace di prendere qualcosa sul serio per più di 20 minuti) e un florilegio
di curiosità. Per esempio il fatto che i nostri erano soliti chiudere molte
serate vedendo e rivedendo «Hollywood Party», con Peter Sellers, o perdere
nottetempo al tavolo da gioco vagonate di soldi onestamente guadagnati di
giorno. E ne guadagnavano parecchi, quando la musica vendeva e rendeva davvero.
Pubblicavano canzoni scritte
per combattere «Il mal d’amore ripugnante della canzone italiana» (Pace), ma
anche – dichiaratamente - per fare cassetta. Persino con film non proprio esaltanti
ma entrati nella leggenda. Da «Arrapaho» («Costò 500 milioni e incassò tre
miliardi», Cerruti) al flop di «Uccelli d’Italia». Gli album avevano copertine
trash e titoli espliciti: «Pompa», «Scoraggiando», «Troia», «Palle», «Vacca»,
«Mutando», «Tromba», «Cappelle», sino all’ultimo, «Cambiamento», con le voce di
Savio piegata dalla malattia e in parte rimpiazzata da Gigi Sabani. Che non
poteva fare miracoli, perché la voce di Toto aveva del miracoloso.
E poi, le invenzioni di
Cerruti, coi suoi monologhi in parte surreali: «Vieni giù, Berta, ho un toro
nelle mutande … Ho consumato già due cassette di Little Tony». Lo stesso
Cerruti che oggi, in camera caritatis, confessa: «Frequentavamo i cantanti, che
sono i peggiori scassacazzi del mondo». Gli fa eco Mara Maionchi, che conferma:
«Su questo sono d’accordo». E qui torniamo alle parole di Bigazzi, chiudendo il cerchio.
Gli Squallor, con le loro
parodie: da «Usa for Italy» a «Mortò veneziano», quando il Rondò andava per la
maggiore. Sino al vezzo solista di Pace, che per sfizio incise una
misconosciuta canzone romantica in napoletano: «Piccerè».
La canzone preferita di
Stefano Bollani nel repertorio squalloresco è quel
gioiello di «Mi ha rovinato il ‘68». Ma tutti chiudono in coro fra lacrime e
risate intonando «Cornutone». E poi non dite che non ve l’avevo detto.