Se hai già fatto almeno un corso d'inglese in America, lo sai perfettamente. Se non ti è ancora capitato, è bene che tu conosca il frasario essenziale per affrontare un'eventualità come questa, e tutti i suoi chiaroscuri.
I corsi d'inglese, a meno che non siano buone ma fredde e costose lezioni one-to-one, ti riproiettano immediatamente in un clima da tempi supplementari della tua adolescenza: classi miste, compiti da fare, piccoli jokes con i compagnucci, quella carina della classe, quello che sta sulle balle al mondo intero, e convenevoli mattutini che si svolgono secondo un rigorosissimo copione. Da non trasgredire mai, pena l'amputazione delle falangi e la gogna in sala computer. Peraltro sempre meno utilizzata perché tutti ormai sono provvisti di smartphone. Si cercano piuttosto ovunque, improvvisandosi rabdomanti, reti wi-fi aperte, come nei sempre ospitali caffè della catena Starbucks, dove allegri scrocconi bivaccano per ore navigando senza ritegno e telefonando in capo al mondo con Skype al costo di un solo cappuccino. Ask to your Barista.
Per ragioni ancestrali ignote a tutti ma accettate come convenzione, la prima, fondamentale domanda che tutti si rivolgono reciprocamente senza soluzione di continuità, nelle scuole d'inglese in America, è: "Where do you come from?". C'è qualcosa - forse un'antica maledizione - che impone agli iscritti di sapere e chiedere continuamente e ossessivamente al prossimo da dove provenga e, soprattutto, quanto tempo si fermi lì ("How long do you stay here?"). Questa chiave di lettura consente, da lì in avanti, di sfoggiare una miriade di sapidi lazzi e luoghi comuni sui rispettivi paesi. Dall'italiano che gesticola, al francese polemico e snob; dalla brasiliana di Rio che si distingue per l'accento unico ed irripetibile da tutti i brasiliani del mondo (quest'anno c'è una giornalista carioca che con questa storia ammorba chiunque incontri senza accorgersi di averla già raccontata più volte alla stessa persona; sembra il giorno della marmotta, e c'è già chi ha proposto di abbatterla alle macchinette con frecce al curaro), al tedesco un po' pirata, un po' signore, un po' Gestapo. C'è persino un kazako che ogni giorno maledice il giorno in cui nelle sale è uscito "Borat", giusto per capirsi.
Le due domande sopra esposte sono la base pizza di qualsiasi scuola, l'argomento principe di conversazione quotidiano, ed equivalgono al sorrisetto smorto e alle chiacchiere sul meteo in ascensore da noi in Italia. I più svegli le rivolgono con estrema velocità subito a chiunque, mettendolo al tappeto, oppure svicolano per corridoi aspettando che qualcuno li incontri e le rivolga a loro, in una sorta di duello modello far west. Vivere o morire a Miami. Sono consentite piccole varianti e aggiustamenti durante lo sviluppo del percorso di studi. Avremo per esempio: "How long do stay more?" che consente al "richiedente" di mettersi a posto la coscienza formulando la domanda obbligatoria, e al "rispondente" di aggiustare il tiro riducendo di volta in volta il numero delle settimane a disposizione. Il tempo scorre ingrato, non dimenticare di aggiungere opportuna espressione di disappunto, oppure parole come "Unfortunately", molto apprezzate per via del loro impiego infrequente. Si narra che il record, tuttora imbattuto dal '94, sia detenuto da un giovane tirolese che l'aveva fra l'altro proposto in inedita versione jodler: 1 secondo e 12, non omologato per assenza di testimoni.
Questi due certo interessanti ma incessanti interrogativi partono dal momento dell'arrivo alla school, quando vieni ricevuto al bancone dalla squittente segretaria americana di turno. Anche se l'anima dannata approfitta del suo inglese fluente per rivolgertele alla velocità della luce e a bruciapelo, dopo depistanti giri di parole con i quali medita di farti cadere subito nel suo tranello. I più scaltri sorridono senza parlare porgendo i documenti (sguardo di diffidenza). D'altra parte siamo gente di mondo e non sarà certo una post-pischella a stelle e strisce a metterci nel sacco. Quelli che ostentano maggiore confidenza con la lingua si spingono sino a varianti (peraltro sempre sconsigliate dal protocollo per via dell'aumento del livello di difficoltà) come "How long have you been here?". Lo fai a tuo rischio e pericolo, insomma. Può andarti di lusso, con ovazioni da stadio, oppure puoi rimediare una figuraccia meschina che ti accompagnerà per il resto dei tuoi giorni.
I meno avvantaggiati, per via delle difficoltà fonetico-grammaticali, sono gli studenti orientali, che devono la loro fama di persone più riservate e schive esclusivamente alla difficoltà di pronunciare le due domande rituali nelle scuole di inglese. Un annoso problema senza soluzione. Coreani, giapponesi e cinesi infatti sarebbero dei pazzerelloni irriducibili che manco a Zelig, se la loro immagine non venisse costantemente danneggiata da una vita da questa maggiore lentezza nell'apprendimento e nell'elaborazione delle due questions fondamentali. Non a caso compensano fermandosi in America a studiare per intere ere geologiche. Quando tornano in patria, la lingua non la sanno parlare e i parenti non li riconoscono più. Ma se ti sbagli a domandare loro da dove provengano e quanto si fermeranno ancora lì, tengono un discorso (totalmente a braccio) di almeno due ore.