Fiumicino, Roma. Sul tabellone delle partenze lampeggia il volo per Casablanca, e Marco Marzocca sembra tutto tranne che Ariel, il domestico filippino del «Certo, signò! Zùbito, signò!» che gli ha regalato il successo. «Sto partendo per Ouazarzate, in Marocco. Un posto dove vengono realizzate molte produzioni internazionali. Sarà il set della nuova serie di spot Tim» anticipa a «Sorrisi». «Dopo la madre di Garibaldi, stavolta sarò il segretario di Marco Polo, un accompagnatore cinese. Con me, come sempre, Bianca Balti e Neri Marcorè». Anche lui con la carta d’imbarco in mano.
Marzocca, proprio in Marocco dovevate andare a girare?
«Siamo solo esecutori. Decide tutto il marketing Tim, che si appoggia a un’agenzia pubblicitaria argentina. Sapesse quanta soddisfazione mi danno sempre questi 30 secondi...».
Come mai?
«Perché fanno ridere e ci danno la possibilità di improvvisare un minimo. Basta una parola fuori copione, a volte, e il risultato migliora. Mi è già successo due volte. E abbiamo un regista hollywoodiano: Harald Zwart, che ha fatto il secondo “Karate Kid”».
Non è il vostro caso, ma come mai gli spot dei comici per compagnie telefoniche, case automobilistiche e quant’altro, sono spesso i più brutti?
«Perché sono i più difficili. Ho studiato la pratica. Il problema è anche la parte istituzionale, con il messaggio pubblicitario aziendale vero e proprio. Si può mettere all’inizio, o alla fine. Tim lo mette alla fine».
Quindi?
«In 30 secondi devi: contestualizzare lo spot, raccontare qualcosa che faccia ridere, e dare il messaggio istituzionale. Una faticaccia».
Ma lei, ex farmacista che fa cabaret dal ‘94, quando mandò un video a «Tunnel» (Raitre), non si è stancato di essere un eterno secondo?
«A me lo dice? Pensi che tre anni fa feci tre serate da tutto esaurito al Gran Teatro di Roma: 9150 paganti. E 13 giorni al Brancaccio: sala da 1350 posti. Lei ha mai visto un articolo su un giornale? Non faccio notizia perché evito le imitazioni dei politici. Ma a questa logica, non mi piego».
Eppure quando fa il domestico Ariel gode di popolarità trasversale. È amatissimo...
«Vero. Se dal vivo non lo faccio, c’è la rivolta. Mia moglie Liliana è colombiana, conosco il mondo di chi, extracomunitario, arriva qui senza soldi. Ariel sorride sempre, anche quando gli va storta o sbaglia. È felice. Siamo noi che abbiamo troppo».
Da un anno e mezzo si è trasferito a Orlando, in Florida...
«Ho chiesto una carta verde e a sorpresa me ne hanno concessa una speciale, subito. Per non perderla, me ne sono andato. Anche per dare ai miei due figli un futuro di meritocrazia, che qui non esiste».
E negli States, che cosa fa?
«Ho un ristorante, “Big Italy”. E collaboro con Universal Studios. Lì se hai un progetto - e io tre idee in giro le ho -, basta avere il finanziatore e le realizzi subito. Qui sei in balìa degli umori mattutini di produttori e direttori».
Chi è il più grande col quale ha lavorato?
«Non perché mi ha scoperto, ma dico Corrado Guzzanti. Senza dubbio. Pare che ora rifaccia “Aniene” su Sky. E dovrei esserci anch’io».
(TV SORRISI E CANZONI - APRILE 2012)
Marzocca, proprio in Marocco dovevate andare a girare?
«Siamo solo esecutori. Decide tutto il marketing Tim, che si appoggia a un’agenzia pubblicitaria argentina. Sapesse quanta soddisfazione mi danno sempre questi 30 secondi...».
Come mai?
«Perché fanno ridere e ci danno la possibilità di improvvisare un minimo. Basta una parola fuori copione, a volte, e il risultato migliora. Mi è già successo due volte. E abbiamo un regista hollywoodiano: Harald Zwart, che ha fatto il secondo “Karate Kid”».
Non è il vostro caso, ma come mai gli spot dei comici per compagnie telefoniche, case automobilistiche e quant’altro, sono spesso i più brutti?
«Perché sono i più difficili. Ho studiato la pratica. Il problema è anche la parte istituzionale, con il messaggio pubblicitario aziendale vero e proprio. Si può mettere all’inizio, o alla fine. Tim lo mette alla fine».
Quindi?
«In 30 secondi devi: contestualizzare lo spot, raccontare qualcosa che faccia ridere, e dare il messaggio istituzionale. Una faticaccia».
Ma lei, ex farmacista che fa cabaret dal ‘94, quando mandò un video a «Tunnel» (Raitre), non si è stancato di essere un eterno secondo?
«A me lo dice? Pensi che tre anni fa feci tre serate da tutto esaurito al Gran Teatro di Roma: 9150 paganti. E 13 giorni al Brancaccio: sala da 1350 posti. Lei ha mai visto un articolo su un giornale? Non faccio notizia perché evito le imitazioni dei politici. Ma a questa logica, non mi piego».
Eppure quando fa il domestico Ariel gode di popolarità trasversale. È amatissimo...
«Vero. Se dal vivo non lo faccio, c’è la rivolta. Mia moglie Liliana è colombiana, conosco il mondo di chi, extracomunitario, arriva qui senza soldi. Ariel sorride sempre, anche quando gli va storta o sbaglia. È felice. Siamo noi che abbiamo troppo».
Da un anno e mezzo si è trasferito a Orlando, in Florida...
«Ho chiesto una carta verde e a sorpresa me ne hanno concessa una speciale, subito. Per non perderla, me ne sono andato. Anche per dare ai miei due figli un futuro di meritocrazia, che qui non esiste».
E negli States, che cosa fa?
«Ho un ristorante, “Big Italy”. E collaboro con Universal Studios. Lì se hai un progetto - e io tre idee in giro le ho -, basta avere il finanziatore e le realizzi subito. Qui sei in balìa degli umori mattutini di produttori e direttori».
Chi è il più grande col quale ha lavorato?
«Non perché mi ha scoperto, ma dico Corrado Guzzanti. Senza dubbio. Pare che ora rifaccia “Aniene” su Sky. E dovrei esserci anch’io».
(TV SORRISI E CANZONI - APRILE 2012)