Sergio Di Stefano, calda e leggendaria voce italiana del «Dr. House». Alla faccia del razionalismo scientifico, si presenta all’appuntamento con tre cornetti anti-jella. Uno classico, rosso, appeso al collo; un altro minuscolo, da passeggio, attaccato al braccialetto; l’ultimo, ultra-ricurvo e trendy, che ballonzola dalla cintura. Avesse con sé anche due pacchetti di sale grosso, parrebbe il cugino del mago Do Nascimento. «Guardi che la jella colpisce. Becca eccome, e bisogna difendersi» dice. «C’è parecchia gente che mi vuole male. Persone invidiose. Questo cornetto alla cintura me l’hanno scalfito, a furia di tentare di colpirmi». La prima, grande sorpresa è che la voce di House detesta i medici. «Ci vado, come tutti, ma l’indispensabile. Un amico medico mi disse: “Sandro, non ammalarti: se non ti ammazza la malattia, ti ammazza il medico”. E io sto alla larga. Medicine? Prendo un po’ di Optalidon, ogni tanto, per il mal di testa. Anche in tv: pronuncio i nomi di malattie complicatissime, ma non ci capisco quasi niente, è solo mestiere. E preferisco così: spesso sono cose terrificanti e - pare - verissime».
Single incallito, è convinto che il suo personaggio finirà prima o poi a letto con la dottoressa Cuddy. E dice di non trattare i suoi colleghi come House fa con quelli dello staff. «Non credo che se vivesse in Italia House lavorerebbe per la sanità pubblica. Forse metà e metà: ha bisogno di guadagnare. Però lei se lo immagina in un ospedale italiano? Con quel carattere non potrebbe neppure fare il consulente a “Elisir”. Lì ci vuole esibizionismo e pazienza».
Doppiatore tra i più rappresentitivi della sua generazione («Il più rappresentativo, detto con immodestia. Lo scriva, sono il più bravo. Scherzo, ma mica tanto»), Di Stefano è un mite. Ma infila il suo mitico guanto di lattice quando si tratta di telefonare ai direttori di rete. «Se su Canale 5 vedo in onda serie ed episodi del «Dr. House» in ordine semi-casuale, mi viene la rabbia!» dice. «Penso: poveri spettatori, che confusione! Ma che ci posso fare? Ho anche alzato la cornetta per chiamare qualche dirigente, ma niente: in tv conta solo il profitto». Quanto tempo serve per preparare un episodio? «Neppure un secondo: arriviamo in sala, c’è un leggìo, e facciamo al volo, in sequenza, gli “anelli”: pezzi da un minuto, 40 secondi, con in genere due battute e due risposte. Ci pagano a righe lette e gli spot sono a parte. È facile. Noi doppiatori siamo molto fortunati e sopravvalutati. Siamo solo un tramite fra l’autore e il pubblico, niente di più. Riempiamo una faccia vuota. Il segreto per lavorare bene sono gli occhi. Bisogna guardare quelli più che le labbra, e saper cogliere l’intenzione. House non è il mio capolavoro: fu “Mephisto”, nell’81, la voce di Klaus Maria Brandauer. E poi Jeff Bridges ne “Il grande Lebowski”. In tv, la serie “Hunter”». E poi il cattivo per antonomasia: John Malkovich. «Mi piace fare quello che non sono. Essendo buono di natura - purtroppo - dare voce ai cattivi mi scatena l’adrenalina».
Un ricordo di Sergio Di Stefano, morto a 71 anni per un infarto.
Lo incontrai nel giugno 2008 per TV SORRISI E CANZONI.
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