«Quando sono in tournée in giro per il mondo, la mia piccola “vendetta” è cucinare italiano. Se mi capitano dieci concerti in un posto dove ti servono un catering a dir poco allucinante, al quarto giorno grido aiuto, blocco tutto, cerco di procurarmi la materia prima, vado ai fornelli e gliela faccio vedere io».
Il proverbiale orgoglio di Al Bano Carrisi, simbolo della Puglia più ruspante e saporita, fa capolino (come dubitarne?) anche in cucina. Dove è in grado di passare spesso dalla necessità alla virtù. «Una volta in Spagna» racconta «recuperai olio e filetti di carne e preparai per alcuni amici una cena che ancora ricordano. La stessa cosa a Monaco: spaghetti con sugo di pesce per 60 persone. Non è facile... In Russia, a Ekaterinburg, arrivavano ogni giorno cose immangiabili, e così pure a Erfurt, in Germania. Tempo dieci giorni, faccio arrivare da Francoforte un amico fidato con l’auto piena di prodotti italiani. E salvo tutti. La cucina straniera che amo di più, invece, è quella giapponese, varia e interessante. A Tokio, durante il party di un festival Yamaha, c’erano bancarelle con le specialità di ogni regione. Cose da impazzire. Con Toto Cutugno rischiai l’indigestione. Non volevo più andarmene».
Mister Carrisi in cucina ama il piatto più classico, quello dal nome che Lino Banfi pronuncerebbe a modo suo: orecchiette con cime di rapa. «È il nostro marchio di fabbrica, unico» prosegue Al Bano. «Ma attenzione: nel barese fanno solo orecchiette, mentre nel brindisino e nel leccese ci sono i pizzicarieddi con le orecchiette, che rappresentano poi il sesso maschile e quello femminile insieme. È una regione molto varia, la nostra, fra zone di collina e di mare. Nel Gargano c’è un altro tipo di cucina, sempre rispettabilissima, e nelle Murge prevalgono arrosti, agnelli, involtini». Per le orecchiette, ma anche per alcuni piatti tradizionali a base di fave e ceci, Al Bano snobba il ristorante delle sue tenute di Cellino San Marco (Brindisi) e si affida ancora alle mani esperte di mamma Jolanda, 86 anni e nessuna voglia di abbandonare il suo posto in cucina. «A “Sorrisi” rivelo invece il mio segreto: la salsetta che ho battezzato “Albaniana”: carote, aglio, cipolle, prezzemolo, peperoncino e pomodori freschi. Il tutto frullato aggiungendo olio d’oliva e mezzo bichiere di vino bianco. Se la provate, farete un’ottima figura. Ai fornelli me la cavo bene, e avendo girato ovunque contamino la cucina pugliese con spunti che vengono da tutto il mondo».
In materia di olio d’oliva e di vini, Al Bano è un’autorità. Nei suoi possedimenti (70 ettari), che confinano con quelli del fratello Franco, trovano posto «7.000 ulivi, e almeno una ventina di piante che vanno considerate storiche, perché superano i 1.100 anni di vita. Mediamente ogni pianta regala 15 litri d’olio, dipende dalle annate, che sono altalenanti. Fate voi i conti. Tra i vitigni, invece, domina il negramaro: complessivamente lavoriamo 4.000 quintali d’uva l’anno, per un totale di circa 300 mila bottiglie, ma non basta: un po’ di uve le compriamo da altri contadini della zona, che ci garantiscono un prodotto di livello, da viti di 80-90 anni. Da sempre ripeto il mio slogan: “Vivo per la qualità”. Sono stato anche fra i primi a convertirmi al biologico, 10 anni fa, dopo aver letto un articolo in materia».
Le grandi tavolate a Cellino, quelle che affondano nei ricordi del cantante, sono un classico: «Quelle più rilevanti sono per Natale, Pasqua e San Marco, la festa del patrono. Durante quelle occasioni, in famiglia ti sentivi ricco. Altre volte ti dovevi accontare dei legumi e della classica frisella, il piatto dei contadini, una sorta di tarallo che portavano nelle loro sacche e che al momento di pranzare tiravano fuori, pulivano, e inzuppavano nell’olio. Da mangiare con pomodori, foglie di cicoria e a volte anche alici. Una vecchia tradizione gastronomica campagnola che da bambino mi ha sempre fatto un po’ impressione, invece, era legata alla commemorazione di un defunto: quando una famiglia subiva un lutto, i vicini e gli amici preparavano per gli altri, colpiti dalla disgrazia, il cosiddetto “cùnsulo”, una cena molto povera, a base di brodo con pastina e pollo, che rispecchiava la tristezza del momento. In contrapposizione al clima di festa che c’è quando si mangia tutti insieme. In quei momenti ci si sforzava di mangiare ricordando i bei momenti legati alla vita del defunto. Ho un’immagine negli occhi: il bianco delle case in contrapposizione al nero dei vestiti di tutti gli invitati».
L’uomo di «Felicità» (che non è soltanto una sua canzone dell’epoca del sodalizio con Romina, ma anche l’etichetta dello spumante di casa Carrisi), ha un piccolo segreto per rilassarsi con gli amici: «Basta prendere la barca, uscire in mare aperto e pescare un po’ di ricci di mare; naturalmente quando si è nel periodo dell’anno in cui questa pesca è consentita. Poi lasciare andare la barca, spaccare i ricci (bisogna essere abbastanza bravi, e io imparai da bambino) e mangiarli crudi, solo con pane e vino bianco. Non c’è niente di meglio, mi creda. Sa che cosa le dico? Quest’intervista mi ha messo un gran fame».
Il proverbiale orgoglio di Al Bano Carrisi, simbolo della Puglia più ruspante e saporita, fa capolino (come dubitarne?) anche in cucina. Dove è in grado di passare spesso dalla necessità alla virtù. «Una volta in Spagna» racconta «recuperai olio e filetti di carne e preparai per alcuni amici una cena che ancora ricordano. La stessa cosa a Monaco: spaghetti con sugo di pesce per 60 persone. Non è facile... In Russia, a Ekaterinburg, arrivavano ogni giorno cose immangiabili, e così pure a Erfurt, in Germania. Tempo dieci giorni, faccio arrivare da Francoforte un amico fidato con l’auto piena di prodotti italiani. E salvo tutti. La cucina straniera che amo di più, invece, è quella giapponese, varia e interessante. A Tokio, durante il party di un festival Yamaha, c’erano bancarelle con le specialità di ogni regione. Cose da impazzire. Con Toto Cutugno rischiai l’indigestione. Non volevo più andarmene».
Mister Carrisi in cucina ama il piatto più classico, quello dal nome che Lino Banfi pronuncerebbe a modo suo: orecchiette con cime di rapa. «È il nostro marchio di fabbrica, unico» prosegue Al Bano. «Ma attenzione: nel barese fanno solo orecchiette, mentre nel brindisino e nel leccese ci sono i pizzicarieddi con le orecchiette, che rappresentano poi il sesso maschile e quello femminile insieme. È una regione molto varia, la nostra, fra zone di collina e di mare. Nel Gargano c’è un altro tipo di cucina, sempre rispettabilissima, e nelle Murge prevalgono arrosti, agnelli, involtini». Per le orecchiette, ma anche per alcuni piatti tradizionali a base di fave e ceci, Al Bano snobba il ristorante delle sue tenute di Cellino San Marco (Brindisi) e si affida ancora alle mani esperte di mamma Jolanda, 86 anni e nessuna voglia di abbandonare il suo posto in cucina. «A “Sorrisi” rivelo invece il mio segreto: la salsetta che ho battezzato “Albaniana”: carote, aglio, cipolle, prezzemolo, peperoncino e pomodori freschi. Il tutto frullato aggiungendo olio d’oliva e mezzo bichiere di vino bianco. Se la provate, farete un’ottima figura. Ai fornelli me la cavo bene, e avendo girato ovunque contamino la cucina pugliese con spunti che vengono da tutto il mondo».
In materia di olio d’oliva e di vini, Al Bano è un’autorità. Nei suoi possedimenti (70 ettari), che confinano con quelli del fratello Franco, trovano posto «7.000 ulivi, e almeno una ventina di piante che vanno considerate storiche, perché superano i 1.100 anni di vita. Mediamente ogni pianta regala 15 litri d’olio, dipende dalle annate, che sono altalenanti. Fate voi i conti. Tra i vitigni, invece, domina il negramaro: complessivamente lavoriamo 4.000 quintali d’uva l’anno, per un totale di circa 300 mila bottiglie, ma non basta: un po’ di uve le compriamo da altri contadini della zona, che ci garantiscono un prodotto di livello, da viti di 80-90 anni. Da sempre ripeto il mio slogan: “Vivo per la qualità”. Sono stato anche fra i primi a convertirmi al biologico, 10 anni fa, dopo aver letto un articolo in materia».
Le grandi tavolate a Cellino, quelle che affondano nei ricordi del cantante, sono un classico: «Quelle più rilevanti sono per Natale, Pasqua e San Marco, la festa del patrono. Durante quelle occasioni, in famiglia ti sentivi ricco. Altre volte ti dovevi accontare dei legumi e della classica frisella, il piatto dei contadini, una sorta di tarallo che portavano nelle loro sacche e che al momento di pranzare tiravano fuori, pulivano, e inzuppavano nell’olio. Da mangiare con pomodori, foglie di cicoria e a volte anche alici. Una vecchia tradizione gastronomica campagnola che da bambino mi ha sempre fatto un po’ impressione, invece, era legata alla commemorazione di un defunto: quando una famiglia subiva un lutto, i vicini e gli amici preparavano per gli altri, colpiti dalla disgrazia, il cosiddetto “cùnsulo”, una cena molto povera, a base di brodo con pastina e pollo, che rispecchiava la tristezza del momento. In contrapposizione al clima di festa che c’è quando si mangia tutti insieme. In quei momenti ci si sforzava di mangiare ricordando i bei momenti legati alla vita del defunto. Ho un’immagine negli occhi: il bianco delle case in contrapposizione al nero dei vestiti di tutti gli invitati».
L’uomo di «Felicità» (che non è soltanto una sua canzone dell’epoca del sodalizio con Romina, ma anche l’etichetta dello spumante di casa Carrisi), ha un piccolo segreto per rilassarsi con gli amici: «Basta prendere la barca, uscire in mare aperto e pescare un po’ di ricci di mare; naturalmente quando si è nel periodo dell’anno in cui questa pesca è consentita. Poi lasciare andare la barca, spaccare i ricci (bisogna essere abbastanza bravi, e io imparai da bambino) e mangiarli crudi, solo con pane e vino bianco. Non c’è niente di meglio, mi creda. Sa che cosa le dico? Quest’intervista mi ha messo un gran fame».